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Aggiornamento in Medicina
Uno studio internazionale, finanziato anche da Telethon, ha individuato una variante genetica che spiega il maggior rischio di certe persone di andare incontro a episodi cardiaci fatali.
Lo studio, coordinato da Peter Schwartz, direttore della cattedra di Cardiologia dell’Università di Pavia, dell’Unità coronarica della Fondazione Irccs Policlinico San Matteo e del laboratorio di Genetica cardiovascolare dell’Istituto Auxologico Irccs di Milano, è stato pubblicato da Circulation.
Da quasi 40 anni Schwartz studia una patologia cardiaca ereditaria nota come sindrome del QT lungo e caratterizzata da un elevato rischio di aritmie, irregolarità del ritmo cardiaco che possono provocare sincope e morte improvvisa, talvolta anche nei lattanti ( sindrome della morte in culla ). A dare il nome alla malattia è l’allungamento di uno specifico parametro dell’elettrocardiogramma chiamato appunto intervallo QT.
Attualmente si conoscono almeno 12 geni associati alla sindrome, tutti coinvolti nel trasporto di ioni attraverso le membrane delle cellule cardiache. In circa la metà dei casi clinici, i difetti sono a carico del gene KCNQ1 ( che controlla il flusso di potassio attraverso le cellule cardiache ) e le aritmie potenzialmente letali si manifestano principalmente quando questi pazienti sono sotto stress, fisico o emotivo.
Per ridurre il rischio di sincope o morte improvvisa, le persone affette vengono trattate con farmaci beta-bloccanti e, nei casi più gravi, con la rimozione di particolari nervi della porzione sinistra del cuore coinvolti nell’insorgenza delle aritmie, oppure con l’impianto di un defibrillatore automatico.
Quello che i Ricercatori non riuscivano a spiegarsi era l’estrema variabilità che osservavano fra gli individui portatori dello stesso difetto genetico: perché in un 20-30% dei casi queste persone vivono senza alcun sintomo per tutta la vita, mente altri vanno incontro ad aritmie talvolta fatali ? Dovevano esistere degli altri fattori in grado di contribuire, insieme ai geni già noti, a determinare il rischio. Per scoprirli Schwartz e il suo gruppo hanno studiato il Dna di 500 individui sudafricani, appartenenti a 25 famiglie discendenti da un unico progenitore olandese, giunto a Cape Town nel 1690 e affetto da sindrome del QT lungo. La particolarità della popolazione studiata sta nel fatto che ben 205 di questi soggetti presentano la stessa mutazione a carico del gene KCNQ1, identica a quella del loro antenato ( che per uno strano scherzo del destino si chiamava Pieter Swart, la versione olandese di Peter Schwartz ).
Analizzando il patrimonio genetico di queste persone, i Ricercatori hanno studiato due particolari varianti di un altro gene, chiamato NOS1AP, che nelle persone normali inducono un lieve e ininfluente allungamento dell’intervallo QT, ma che quando sono associate a difetti nel gene KCNQ1 fanno letteralmente raddoppiare il rischio di sincope e morte improvvisa. In altre parole, la presenza di queste varianti genetiche, assai comuni nella popolazione generale, potrebbe spiegare almeno in parte il diverso destino dei pazienti con la sindrome del QT lungo.
È la prima volta che vengono individuati con precisione dei geni modificatori, capaci cioè di spiegare le diversità nella manifestazione clinica di una medesima malattia ( penetranza ).
Secondo Schwartz, questa scoperta permetterà di individuare quei pazienti affetti da sindrome del QT lungo più a rischio e di trattarli tempestivamente con terapie di prevenzione più aggressive. Ma non è tutto: come spesso accade nella ricerca biomedica, lo studio di condizioni piuttosto rare può mettere in luce meccanismi di base che potrebbero avere ricadute anche su patologie più diffuse. È ragionevole pensare che i geni modificatori messi in luce dallo studio siano gli stessi che facilitano la morte improvvisa in certi casi di malattie cardiovascolari molto diffuse come l’infarto del miocardio o lo scompenso cardiaco. ( Xagena2009 )
Fonte: Telethon, 2009
Cardio2009